PER LA SOLENNITÀ DI SAN GIUSEPPE. UNA MEDITAZIONE SUL DONO DI SÉ
dalla lettera apostolica patris corde del santo padre Francesco dell'8 dicembre 2020
Nella lettera è contenuta questa bella preghiera
«Glorioso Patriarca San Giuseppe, il cui potere sa rendere possibili le cose impossibili, vieni in mio aiuto in questi momenti di angoscia e difficoltà. Prendi sotto la tua protezione le situazioni tanto gravi e difficili che ti affido, affinché abbiano una felice soluzione. Mio amato Padre, tutta la mia fiducia è riposta in te. Che non si dica che ti abbia invocato invano, e poiché tu puoi tutto presso Gesù e Maria, mostrami che la tua bontà è grande quanto il tuo potere. Amen».
La lettera inizia con questo prologo
Tutti possono trovare in San Giuseppe, l’uomo che passa inosservato, l’uomo della presenza quotidiana, discreta e nascosta, un intercessore, un sostegno e una guida nei momenti di difficoltà. San Giuseppe ci ricorda che tutti coloro che stanno apparentemente nascosti o in “seconda linea” hanno un protagonismo senza pari nella storia della salvezza. A tutti loro va una parola di riconoscimento e di gratitudine.
7. PADRE NELL’OMBRA
(La lettera è suddivisa per capitoli ciascuno dei quali tende ad evidenziare una specifica qualità della Paternità di san Giuseppe. Ti propongo una riflessione sul capitolo 7)
Lo scrittore polacco Jan Dobraczyński, nel suo libro L’ombra del Padre, ha narrato in forma di romanzo la vita di San Giuseppe.
Con la suggestiva immagine dell’ombra definisce la figura di Giuseppe, che nei confronti di Gesù è l’ombra sulla terra del Padre Celeste: lo custodisce, lo protegge, non si stacca mai da Lui per seguire i suoi passi.
La felicità di Giuseppe non è nella logica del sacrificio di sé, ma del dono di sé. Non si percepisce mai in quest’uomo frustrazione, ma solo fiducia. (Patris Corde, cap.7)
Mi soffermerò a commentare questa particolare definizione che da il Papa sulla felicità. Perché ritengo sia originale e può aprirci un orizzonte nuovo sul modo di corrispondere alla nostra vocazione di cristiani.
Usare la parola dono invece che sacrificio, sottolinea l'aspetto positivo e relazionale di questo gesto. Il dono è sempre per qualcuno, il sacrificio può apparire come "autoreferenziale": "come sono sacrificato, io mi sacrifico per voi".
Mai se io dico o penso, "mi dono a voi", suona meglio! Rende meglio l'idea, il dono acquista la sua pienezza e racchiude la dimensione del sacrificio quando è vissuto nella prospettiva della gratuità.
Un qualcosa che a me non da nulla, ma è per "l'altro".
La parola "sacrificio" ha un certo fascino romantico ed eroico, ma allo stesso tempo può respingere, intristire, o portare ad una visione negativa, venata di vittimismo.
Il dono di sé, che nella sostanza è "sacrificio", perdendo la carica eroica e soggettiva, apre alla relazione. Non sono io che mi sacrifico, ma faccio dono di me stesso nel matrimonio, in una vocazione celibataria, religiosa, nell'amicizia, nel lavoro, ecc...
Diciamo che il dono di sé è un sacrificio che però si proietta sul fine, sulla realizzazione, che è sempre un atto di servizio:
«14Se dunque io, il Signore e il Maestro, ho lavato i piedi a voi, anche voi dovete lavare i piedi gli uni agli altri. 15Vi ho dato un esempio, infatti, perché anche voi facciate come io ho fatto a voi.» (Giovanni,13).
La logica del sacrificio è quella della "autoannientamento", se non diventa dono di sé, esprimendo la bellezza e la gioia dell'amore.
Alle volte se ci sentiamo "sacrificati", possiamo manifestare tristezza, frustrazione e infelicità. Quando invece ci mettiamo nella logica del dono, guardiamo ai frutti, che verranno, che è il fine del dono.
San Josemarià aveva devozione per "l'asinello della noria". La Noria (termine di origine arabo), é un attrezzo che risale all'inizio dell'agricoltura, ma è rimasto in uso fino ai tempi moderni, è costituita da una ruota, dal diametro variabile pescante con la parte inferiore in un fiume o canale. Sulla ruota sono montate delle pale per mezzo delle quali la noria è messa in rotazione dalla corrente d'acqua. Quando i secchi giungono nella parte superiore della ruota svuotano il loro contenuto in una vasca di raccolta. Ma la ruota poteva anche essere mossa da un animale. Il compito dell'animale, di un asinello, come piaceva ricordare a san Josemaria, era monotono e faticosa, ma:
998. Benedetta perseveranza dell'asinello di nòria! Sempre allo stesso passo. Sempre gli stessi giri. Un giorno dopo l'altro: tutti uguali. Senza di ciò, non vi sarebbe maturità nei frutti, né freschezza nell'orto, non avrebbe aromi il giardino. Porta questo pensiero alla tua vita interiore. (Cammino).
Lì dove la vocazione cristiana, che si può esprimere nel lavoro professionale, nella vita di tutti i giorni, nel matrimonio, o in un cammino religioso o sacerdotale:
"non giunge alla maturazione del dono di sé fermandosi solo alla logica del sacrificio, allora invece di farsi segno della bellezza e della gioia dell’amore rischia di esprimere infelicità, tristezza e frustrazione." (Patris Corde, p.7).
Riflettiamo che Gesù ha dato di sé questa definizione, ad alcuni "greci" che lo volevano conoscere, a Gerusalemme:
«23Gesù rispose loro: «È venuta l’ora che il Figlio dell’uomo sia glorificato. 24In verità, in verità io vi dico: se il chicco di grano, caduto in terra, non muore, rimane solo; se invece muore, produce molto frutto.» (Giovanni 12, 23-24).
IL TESTO COMPLETO DELLA LETTERA APOSTOLICA
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